Luoghi del cuore... Places of the heart...

Salvatore
Luoghi del cuore... Places of the heart...

Luoghi d'interesse, perle del territorio.

Un'accurata selezione di luoghi da visitare, luoghi del cuore, siti archeologici, panorami, perle nascoste, cultura, relax e posti imperdibili nell'oristanese.
Oasi felina di Su Pallosu, una visita tra il bellissimo mare e l'omonima oasi felina. Gatti e acqua: chi l'ha detto che non si può? Consigliatissima per i più piccini e per gli amanti dei mici...
I Gatti di Su Pallosu - Oasi Felina Privata (Visite solo su Appuntamento)
12 via ziu triagus
Oasi felina di Su Pallosu, una visita tra il bellissimo mare e l'omonima oasi felina. Gatti e acqua: chi l'ha detto che non si può? Consigliatissima per i più piccini e per gli amanti dei mici...
Borgata di origine medievale, deve il suo nome all'omonima chiesa situata al centro del paese, nel cui sotterraneo si trova un antico santuario pagano di origine nuragica, incentrato sul culto delle acque e ricostruito nel VI secolo. In particolare, l'ipogeo risulta molto interessante in quanto testimonianza di diverse sovrapposizioni religiose: origine nuragica, poi tempio per le divinità romane, su una parete vi è un'iscrizione in arabo, un'invocazione ad Allah, probabile resto di qualche assalto riuscito da parte di predoni islamici in epoca medievale. Il soffitto del pozzo sacro giace al di sotto del livello del mare ed è collegato da una fessurazione luminosa al pavimento dell'edificio cristiano, che fu ricostruito sopra di esso e in dimensioni più piccole di quelle del tempio nuragico originale. Numerosi i graffiti, rarissime testimonianze della vita quotidiana in epoca romana: scene di un ippodromo, disegni di scarsissima qualità di animali e altri invece di pregevole fattura, lettere dell'alfabeto greco, forse testimonianze di esercitazioni di scrittura. Sul luogo sono presenti delle piccole abitazioni rurali (dette "cumbessias") edificate verso la fine del XVII secolo e utilizzate dai proprietari in particolar modo durante le novene. La festa di San Salvatore si festeggia il sabato e la 1ª domenica del mese di settembre. Tra gli anni sessanta e settanta, con l'avvento del fenomeno del western all'italiana, il borgo, viste le sue caratteristiche che ricordano i paesaggi messicani, fece da location a numerosi film western.
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San Salvatore
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Borgata di origine medievale, deve il suo nome all'omonima chiesa situata al centro del paese, nel cui sotterraneo si trova un antico santuario pagano di origine nuragica, incentrato sul culto delle acque e ricostruito nel VI secolo. In particolare, l'ipogeo risulta molto interessante in quanto testimonianza di diverse sovrapposizioni religiose: origine nuragica, poi tempio per le divinità romane, su una parete vi è un'iscrizione in arabo, un'invocazione ad Allah, probabile resto di qualche assalto riuscito da parte di predoni islamici in epoca medievale. Il soffitto del pozzo sacro giace al di sotto del livello del mare ed è collegato da una fessurazione luminosa al pavimento dell'edificio cristiano, che fu ricostruito sopra di esso e in dimensioni più piccole di quelle del tempio nuragico originale. Numerosi i graffiti, rarissime testimonianze della vita quotidiana in epoca romana: scene di un ippodromo, disegni di scarsissima qualità di animali e altri invece di pregevole fattura, lettere dell'alfabeto greco, forse testimonianze di esercitazioni di scrittura. Sul luogo sono presenti delle piccole abitazioni rurali (dette "cumbessias") edificate verso la fine del XVII secolo e utilizzate dai proprietari in particolar modo durante le novene. La festa di San Salvatore si festeggia il sabato e la 1ª domenica del mese di settembre. Tra gli anni sessanta e settanta, con l'avvento del fenomeno del western all'italiana, il borgo, viste le sue caratteristiche che ricordano i paesaggi messicani, fece da location a numerosi film western.
La casa sull’Albero si trova ad Allai un piccolo paese in provincia di Oristano tra verdi colline nella valle del Rio Massari. E’ l’unica casa costruita sull’albero presente in Sardegna edificata su un grosso albero di eucalipto. La sua altezza si innalza per tre piani sulle rive del Rio Massari un piccolo fiume che affianca il paese. L’area risulta molto tranquilla, attrezzata di alcuni tavoli per il pic nic e di un’altalena. La casa sull’albero di Allai è facilmente scalabile attraverso ripide scale molto robuste che attraversano i tre piani panoramici dell’albero dalla quale si può godere di una panoramica vista sul fiume e sul paese.
Casa sull'Albero Allai
La casa sull’Albero si trova ad Allai un piccolo paese in provincia di Oristano tra verdi colline nella valle del Rio Massari. E’ l’unica casa costruita sull’albero presente in Sardegna edificata su un grosso albero di eucalipto. La sua altezza si innalza per tre piani sulle rive del Rio Massari un piccolo fiume che affianca il paese. L’area risulta molto tranquilla, attrezzata di alcuni tavoli per il pic nic e di un’altalena. La casa sull’albero di Allai è facilmente scalabile attraverso ripide scale molto robuste che attraversano i tre piani panoramici dell’albero dalla quale si può godere di una panoramica vista sul fiume e sul paese.
Il santuario nuragico di Santa Cristina è un'area archeologica situata nel territorio del comune di Paulilatino, in provincia di Oristano, nella Sardegna centro-occidentale e nella parte meridionale dell'altopiano di Abbasanta. La località prende il nome dalla chiesa campestre di Santa Cristina che si trova nelle sue vicinanze. Il sito si compone essenzialmente di due parti: la prima, quella più conosciuta e studiata, costituita dal tempio a pozzo, un pozzo sacro risalente all'età nuragica, con strutture ad esso annesse: capanna delle riunioni, recinto e altre capanne più piccole. La seconda parte del complesso a circa duecento metri a sud-ovest è costituita da un nuraghe monotorre, da alcune capanne in pietra di forma allungata di incerta datazione ed un villaggio nuragico, ancora da scavare, di cui sono visibili solo alcuni elementi affioranti[1]. Benché di limitato interesse archeologico integra il complesso l'area devozionale cristiana della chiesa e novenario di Santa Cristina inteso come il luogo nel quale si celebra la novena in onore della santa.
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Parco Archeologico Naturalistico di Santa Cristina
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Il santuario nuragico di Santa Cristina è un'area archeologica situata nel territorio del comune di Paulilatino, in provincia di Oristano, nella Sardegna centro-occidentale e nella parte meridionale dell'altopiano di Abbasanta. La località prende il nome dalla chiesa campestre di Santa Cristina che si trova nelle sue vicinanze. Il sito si compone essenzialmente di due parti: la prima, quella più conosciuta e studiata, costituita dal tempio a pozzo, un pozzo sacro risalente all'età nuragica, con strutture ad esso annesse: capanna delle riunioni, recinto e altre capanne più piccole. La seconda parte del complesso a circa duecento metri a sud-ovest è costituita da un nuraghe monotorre, da alcune capanne in pietra di forma allungata di incerta datazione ed un villaggio nuragico, ancora da scavare, di cui sono visibili solo alcuni elementi affioranti[1]. Benché di limitato interesse archeologico integra il complesso l'area devozionale cristiana della chiesa e novenario di Santa Cristina inteso come il luogo nel quale si celebra la novena in onore della santa.
La cascata si butta in mare con un salto di circa 40 metri, nei pressi della torre costiera del periodo spagnolo di Capo Nieddu. La cascata è presente soltanto durante il periodo delle piogge, da novembre a maggio.
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Istrampu de Capu Nieddu
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La cascata si butta in mare con un salto di circa 40 metri, nei pressi della torre costiera del periodo spagnolo di Capo Nieddu. La cascata è presente soltanto durante il periodo delle piogge, da novembre a maggio.
L'altipiano della Giara (i locali la chiamano Sa Jara) si trova nella parte centrale della Sardegna, ad ovest (W) del golfo di Oristano, tra la Marmilla, la Trexenta, il Sarcidano e l'Arborea. Dal 1995 è riconosciuta come area SIC (Sito di Interesse Comunitario). Il nome italiano Giara ed il nome sardo Jara sono usati in questa parte dell'Isola per indicare alcuni altipiani basaltici, ma sono comunque nomi comuni in molte regioni della Terra per indicare alture pianeggianti, spesso ricoperte di lava, isolette vulcaniche, zone pietrose, ecc. La parte sommitale dell'altipiano si dispone secondo la direzione nord-ovest sud-est (NW-SE) per una lunghezza di 12 Km. Ha un altezza media di circa 550 metri, oscillante tra i 609 metri di Zepparedda (SE) ed i 490 metri di Corona Arrubia (NW) ed un aspetto quasi orizzontale (leggermente inclinato verso NW) costituito da un basamento di marne ed arenarie su cui poggiano diversi strati alternati di calcareniti ed arenarie sedimentatisi nel Miocene (20 milioni di anni orsono); complessivamente ha un'estensione di 45 Kmq ed una forma vagamente trapezoidale, con la larghezza massima a SE che si restringe gradatamente verso NW. Sopra questi strati di roccia si crearono (circa 2,7 milioni di anni orsono) due spaccature da cui fuoriuscì la lava basaltica che ha ricoperto l'intero tavolato. I due coni eruttivi si riconoscono in Zepparedda (SE - 609 m) e Zeppara Manna (NW - 580 m), tra questi si trova la faglia di Sa Roja che percorre trasversalmente l'altipiano, creando un gradino di circa 30 metri. Il bordo è interessato da un fenomeno franoso che ha creato delle rientranze in prossimità delle quali si trovano gli unici accessi naturali all'altipiano, le Scalas. Sopra la superficie basaltica, durante i millenni, si è depositato un leggero strato di terra, raramente profondo oltre 50 cm, su cui si è sviluppata una particolare vegetazione dal carattere spiccatamente mediterraneo. Coperta in origine da fitti boschi, la Giara presenta oggi tutti gli aspetti caratteristici di una tipica area mediterranea antropizzata: questo ci permette di capire come l'uomo possa influire sulla trasformazione-conservazione di un territorio creando ambienti molto diversi tra loro: boschi, macchia, gariga, praterie, prati. I fattori determinanti di questa trasformazione sono stati gli incendi, il taglio del bosco a vantaggio della sughera, il pascolo eccessivo e, in questi ultimi anni, anche la fruizione turistica non controllata. Malgrado tutto la Giara conserva ancora un elevato indice di naturalità. Tra tutti i mammiferi che vivono sulla Giara il Cavallino della Giara, Equus caballus giarae, è senza dubbio il più noto. Non esistendo in Sardegna ritrovamenti fossili di equini, si pensa che il cavallo venne introdotto probabilmente nel periodo nuragico o nel periodo punico. Nel medioevo intere mandrie vivevano nell'isola allo stato brado e alcune popolavano l'Isola di Sant'Antioco ancora sino alla fine dell'800. L'unico luogo in cui oggi questi animali vivono allo stato naturale è l'altipiano della Giara. Caratteristici per la loro piccola stazza, si sono adattati al particolare ambiente della Giara, con abbondanza di cibo e acqua durante inverno e primavera e scarsità delle stesse durante estate e autunno. Durante l'inverno e la primavera le depressioni naturali della Giara, chiamate Paulis, si riempiono di acqua piovana: le più grandi diventano delle grandi riserve e conservano il prezioso elemento sino all'estate. Durante la primavera i circa 60 Paulis della Giara si ricoprono di un manto di bianchi ranuncoli acquatici Ranunculus aquatilis: in questo periodo, nei Paulis più grandi, è facile poter osservare i Cavallini che pascolano tranquilli, cibandosi dei ranuncoli di cui sono ghiotti. Durante l'estate alcune sorgenti sopra l'altipiano assicurano l'acqua per tutti gli animali. Durante l'escursione sarà interessante scoprire l'uso pratico di alcune piante nell'artigianato, nell'alimentazione e nella medicina popolare. Anche l'uomo ha dimostrato di apprezzare questo luogo ospitale, lasciando testimonianza della sua frequentazione sin dal Neolitico (6000-2700 a.C.). Numerose sono le Domus de Janas (grotticelle a più vani scavate nella roccia ed utilizzate come sepolture) realizzate sulle pendici della Giara. I resti di ceramica, selce e ossidiana ritrovati sopra l'altipiano fanno supporre l'occupazione diffusa del territorio in questo periodo. Una conferma della vita sopra la Giara si ha nell'ultima fase dell'Età del Rame (2700-1800 a.C.) con il protonuraghe Bruncu de Madili che si trova sul bordo dell'altipiano, all'estremo angolo SE, sopra Gesturi, Barumini e Tuili. L'imponente monumento (datata al radiocarbonio C14, 1820 ± 250 a.C.) viene considerato il più importante della Sardegna per lo studio sull'evoluzione delle tecniche costruttive dei nuraghi. Si riconoscono la scalinata d'ingresso e i resti di due vani circolari, coperti in origine da tronchi e frasche. A pochi metri dal protonuraghe, ancora oggetto di scavi archeologici, sorge il villaggio (fine II millennio a.C.), composto da alcuni gruppi di capanne circolari disposte attorno a cortili centrali.
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Parco della Giara incontro con la Guida
35 SP5.22
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L'altipiano della Giara (i locali la chiamano Sa Jara) si trova nella parte centrale della Sardegna, ad ovest (W) del golfo di Oristano, tra la Marmilla, la Trexenta, il Sarcidano e l'Arborea. Dal 1995 è riconosciuta come area SIC (Sito di Interesse Comunitario). Il nome italiano Giara ed il nome sardo Jara sono usati in questa parte dell'Isola per indicare alcuni altipiani basaltici, ma sono comunque nomi comuni in molte regioni della Terra per indicare alture pianeggianti, spesso ricoperte di lava, isolette vulcaniche, zone pietrose, ecc. La parte sommitale dell'altipiano si dispone secondo la direzione nord-ovest sud-est (NW-SE) per una lunghezza di 12 Km. Ha un altezza media di circa 550 metri, oscillante tra i 609 metri di Zepparedda (SE) ed i 490 metri di Corona Arrubia (NW) ed un aspetto quasi orizzontale (leggermente inclinato verso NW) costituito da un basamento di marne ed arenarie su cui poggiano diversi strati alternati di calcareniti ed arenarie sedimentatisi nel Miocene (20 milioni di anni orsono); complessivamente ha un'estensione di 45 Kmq ed una forma vagamente trapezoidale, con la larghezza massima a SE che si restringe gradatamente verso NW. Sopra questi strati di roccia si crearono (circa 2,7 milioni di anni orsono) due spaccature da cui fuoriuscì la lava basaltica che ha ricoperto l'intero tavolato. I due coni eruttivi si riconoscono in Zepparedda (SE - 609 m) e Zeppara Manna (NW - 580 m), tra questi si trova la faglia di Sa Roja che percorre trasversalmente l'altipiano, creando un gradino di circa 30 metri. Il bordo è interessato da un fenomeno franoso che ha creato delle rientranze in prossimità delle quali si trovano gli unici accessi naturali all'altipiano, le Scalas. Sopra la superficie basaltica, durante i millenni, si è depositato un leggero strato di terra, raramente profondo oltre 50 cm, su cui si è sviluppata una particolare vegetazione dal carattere spiccatamente mediterraneo. Coperta in origine da fitti boschi, la Giara presenta oggi tutti gli aspetti caratteristici di una tipica area mediterranea antropizzata: questo ci permette di capire come l'uomo possa influire sulla trasformazione-conservazione di un territorio creando ambienti molto diversi tra loro: boschi, macchia, gariga, praterie, prati. I fattori determinanti di questa trasformazione sono stati gli incendi, il taglio del bosco a vantaggio della sughera, il pascolo eccessivo e, in questi ultimi anni, anche la fruizione turistica non controllata. Malgrado tutto la Giara conserva ancora un elevato indice di naturalità. Tra tutti i mammiferi che vivono sulla Giara il Cavallino della Giara, Equus caballus giarae, è senza dubbio il più noto. Non esistendo in Sardegna ritrovamenti fossili di equini, si pensa che il cavallo venne introdotto probabilmente nel periodo nuragico o nel periodo punico. Nel medioevo intere mandrie vivevano nell'isola allo stato brado e alcune popolavano l'Isola di Sant'Antioco ancora sino alla fine dell'800. L'unico luogo in cui oggi questi animali vivono allo stato naturale è l'altipiano della Giara. Caratteristici per la loro piccola stazza, si sono adattati al particolare ambiente della Giara, con abbondanza di cibo e acqua durante inverno e primavera e scarsità delle stesse durante estate e autunno. Durante l'inverno e la primavera le depressioni naturali della Giara, chiamate Paulis, si riempiono di acqua piovana: le più grandi diventano delle grandi riserve e conservano il prezioso elemento sino all'estate. Durante la primavera i circa 60 Paulis della Giara si ricoprono di un manto di bianchi ranuncoli acquatici Ranunculus aquatilis: in questo periodo, nei Paulis più grandi, è facile poter osservare i Cavallini che pascolano tranquilli, cibandosi dei ranuncoli di cui sono ghiotti. Durante l'estate alcune sorgenti sopra l'altipiano assicurano l'acqua per tutti gli animali. Durante l'escursione sarà interessante scoprire l'uso pratico di alcune piante nell'artigianato, nell'alimentazione e nella medicina popolare. Anche l'uomo ha dimostrato di apprezzare questo luogo ospitale, lasciando testimonianza della sua frequentazione sin dal Neolitico (6000-2700 a.C.). Numerose sono le Domus de Janas (grotticelle a più vani scavate nella roccia ed utilizzate come sepolture) realizzate sulle pendici della Giara. I resti di ceramica, selce e ossidiana ritrovati sopra l'altipiano fanno supporre l'occupazione diffusa del territorio in questo periodo. Una conferma della vita sopra la Giara si ha nell'ultima fase dell'Età del Rame (2700-1800 a.C.) con il protonuraghe Bruncu de Madili che si trova sul bordo dell'altipiano, all'estremo angolo SE, sopra Gesturi, Barumini e Tuili. L'imponente monumento (datata al radiocarbonio C14, 1820 ± 250 a.C.) viene considerato il più importante della Sardegna per lo studio sull'evoluzione delle tecniche costruttive dei nuraghi. Si riconoscono la scalinata d'ingresso e i resti di due vani circolari, coperti in origine da tronchi e frasche. A pochi metri dal protonuraghe, ancora oggetto di scavi archeologici, sorge il villaggio (fine II millennio a.C.), composto da alcuni gruppi di capanne circolari disposte attorno a cortili centrali.
tramonto a Is Arutas
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Is Arutas
Is Arutas
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tramonto a Is Arutas
La torre di Mariano II (chiamata anche di san Cristoforo, o port'e Ponti, o porta Manna) è situata nell'attuale piazza Roma a Oristano. Fu eretta nel 1290 dal giudice arborense Mariano II (1241-1291), era una delle quattro porte d'ingresso dell'antica cinta muraria della città. La torre si eleva a nord della cittadina, ha un'altezza di circa 19 metri ed è costituita da tre piani sovrapposti, nell'ultimo è situata una piccola torretta merlata all'interno della quale c'è una campana in bronzo del 1430. La torre è costruita con mattoni di arenaria provenienti da Tharros tramite una lavorazione a bugnato fino a sette metri circa: nella parte inferiore è presente una base formata da granito. Veniva chiamata così dal nome del giudice, perché conservava un retablo spagnolo dedicato al santo protettore dei pellegrini, per la sua grandezza in confronto alle ventotto torri di guardia e per il vicino ponte romano che attraversava il fiume Tirso. Le altre porte d'accesso erano: ad est portixedda, ad ovest porta sant'Antonio e a sud porta Mari, la più importante, (verso il mare e il molo d'approdo). Attraverso quest'ultima passarono, nel 1377 e nel 1378, gli ambasciatori del duca Luigi I d'Angiò, giunti a Oristano per conferire con il giudice Ugone III che scrissero una dettagliata relazione. La torre di san Cristoforo, l'unica sopravvissuta insieme a portixedda, rappresenta un buon esemplare di architettura romanica; la Porta Mari fu demolita nei primi anni del Novecento. Vicino a quest'ultima si innalzava la torre di san Filippo, crollata nel 1872, che aveva la funzione di proteggere il palazzo giudicale e la cattedrale.
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Tower of Mariano II
Piazza Roma
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La torre di Mariano II (chiamata anche di san Cristoforo, o port'e Ponti, o porta Manna) è situata nell'attuale piazza Roma a Oristano. Fu eretta nel 1290 dal giudice arborense Mariano II (1241-1291), era una delle quattro porte d'ingresso dell'antica cinta muraria della città. La torre si eleva a nord della cittadina, ha un'altezza di circa 19 metri ed è costituita da tre piani sovrapposti, nell'ultimo è situata una piccola torretta merlata all'interno della quale c'è una campana in bronzo del 1430. La torre è costruita con mattoni di arenaria provenienti da Tharros tramite una lavorazione a bugnato fino a sette metri circa: nella parte inferiore è presente una base formata da granito. Veniva chiamata così dal nome del giudice, perché conservava un retablo spagnolo dedicato al santo protettore dei pellegrini, per la sua grandezza in confronto alle ventotto torri di guardia e per il vicino ponte romano che attraversava il fiume Tirso. Le altre porte d'accesso erano: ad est portixedda, ad ovest porta sant'Antonio e a sud porta Mari, la più importante, (verso il mare e il molo d'approdo). Attraverso quest'ultima passarono, nel 1377 e nel 1378, gli ambasciatori del duca Luigi I d'Angiò, giunti a Oristano per conferire con il giudice Ugone III che scrissero una dettagliata relazione. La torre di san Cristoforo, l'unica sopravvissuta insieme a portixedda, rappresenta un buon esemplare di architettura romanica; la Porta Mari fu demolita nei primi anni del Novecento. Vicino a quest'ultima si innalzava la torre di san Filippo, crollata nel 1872, che aveva la funzione di proteggere il palazzo giudicale e la cattedrale.
Eleonora o Elianora d'Arborea (Molins de Rei, 1347 circa – Sardegna, giugno 1403) è stata giudicessa d'Arborea, nota anche per l'aggiornamento della Carta de Logu, promulgata dal padre Mariano IV e rivisitata dal fratello maggiore Ugone III. Gli aragonesi, successivi dominatori della Sardegna, estesero l'ambito territoriale di applicazione della Carta de Logu a quasi tutta l'isola. La normativa rimase in vigore per secoli, fino alla sostituzione col codice di Carlo Felice di Savoia (il 16 aprile 1827), ormai alle soglie della fusione perfetta con la terraferma sabauda e del Risorgimento. Il significato simbolico che localmente è attribuito alla figura e alla reggenza di Eleonora è evidenziato dal fatto che il giudicato d'Arborea è stato l'ultimo Stato sardo autoctono a essere ceduto a regnanti esterni all'isola. Questo fa sì che, soprattutto nell'ambito dell'indipendentismo sardo, sia spesso vista come principale eroina nazionale della Sardegna, assieme a Giovanni Maria Angioy.
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エレオノーラ・ダルボレーア広場
34 Piazza Eleonora
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Eleonora o Elianora d'Arborea (Molins de Rei, 1347 circa – Sardegna, giugno 1403) è stata giudicessa d'Arborea, nota anche per l'aggiornamento della Carta de Logu, promulgata dal padre Mariano IV e rivisitata dal fratello maggiore Ugone III. Gli aragonesi, successivi dominatori della Sardegna, estesero l'ambito territoriale di applicazione della Carta de Logu a quasi tutta l'isola. La normativa rimase in vigore per secoli, fino alla sostituzione col codice di Carlo Felice di Savoia (il 16 aprile 1827), ormai alle soglie della fusione perfetta con la terraferma sabauda e del Risorgimento. Il significato simbolico che localmente è attribuito alla figura e alla reggenza di Eleonora è evidenziato dal fatto che il giudicato d'Arborea è stato l'ultimo Stato sardo autoctono a essere ceduto a regnanti esterni all'isola. Questo fa sì che, soprattutto nell'ambito dell'indipendentismo sardo, sia spesso vista come principale eroina nazionale della Sardegna, assieme a Giovanni Maria Angioy.
San Leonardo de Siete Fuentes o di Siete Fuentes (Santu Nenaldu in sardo) è l'unica frazione di Santu Lussurgiu, che prende nome dell'omonima chiesa e dalle sette fonti qui presenti. Si trova a pochi chilometri dal capoluogo comunale, in direzione nord sulla strada provinciale 20. È situato a 684 m di altitudine sul livello del mare. Nell'abitato risiedono stabilmente solo poche persone, ma si popola maggiormente nel periodo estivo. L'abitato si sviluppò intorno alla chiesa omonima e all'antico ospedale. In quel periodo il territorio apparteneva al giudicato di Torres che fra il 1127 e il 1152 era sotto la guida di Gonario II, un partecipante alla seconda crociata. All'estinzione della dinastia del Regno giudicale di Torres con la morte della Regina Adelasia i suoi territori diventarono parte del Regno giudicale di Arborea e con essi la villa di San Leonardo. Dal XIII secolo appartenne all'Ordine ospitaliero di San Giovanni in Gerusalemme. La fondazione di San Leonardo, risalente al XII secolo, è antecedente a quella di Santu Lussurgiu. Quando intorno alla chiesa del santo di Noblac si stabilì un insediamento stabile, nel sito dove oggi sorge la chiesa di Santa Croce era presente solo un santuario con le reliquie di San Lussorio. Degli atti del Liber Censuum del XIII secolo, attestano l'esistenza di un altro villaggio, Lucentina, che sorgeva a pochi chilometri dal santuario di San Lussorio in direzione dell'attuale Abbasanta nella zona che oggi prende il nome di Lughentinas. Nello stesso periodo intorno al santuario si era formato un primo insediamento stabile. Per motivi attribuibili alle guerre e alle epidemie del 1300 gli insediamenti medievali di San Leonardo e Lucentina persero importanza e abitanti mentre crebbe quello di Santu Lussurgiu. Il primo di spopola mentre del secondo non resta traccia. I primi documenti che riportano lo spopolamento di San Leonardo sono della fine del 1500. Secondo uno studio del 2007[1] il nome attuale della chiesa e quindi della borgata potrebbe essere dovuto a un originario insediamento di monaci dell'ordine cistercense e al loro uso di chiamare i propri insediamenti col nome di Septem-Fontes. Il nome deriverebbe dal significato simbolico assunto dal numero sette in connessione con le sorgenti di acqua. Esempi di questa usanza dell'Ordine si trovano in tutta Europa come l'Abbazia di Sept-Fons in Francia a Dompierre-sur-Besbre. Nella seconda metà del Novecento ha avuto un discreto sviluppo. Era presente un albergo dell'ente ESIT (Ente Sardo Industrie Turistiche), un presidio della Croce Rossa Italiana e una colonia montana gestita dai padri gesuiti. La frazione è nota per le sorgenti siete fuentes (in italiano sette fontane), che alimentano un laghetto e il ruscello di San Leonardo che scorre fino alla piana di Abbasanta. L'azienda "Fonti di San Leonardo de Siete Fuentes" imbottiglia l'acqua[2] di sorgente presso lo stabilimento situato lungo la strada principale del borgo. L'azienda fa parte del gruppo SAM (Sarda Acque Minerali) che imbottiglia anche l'acqua San Giorgio, patrono di Siliqua, in località Zinnigas. Negli ultimi mesi, nonostante il parere sfavorevole di geologi e popolazione lussurgese, la suddetta azienda sta effettuando trivellazioni per lo sfruttamento di nuove falde. Quercia da sughero secolare di oltre 250 anni, alta 15 metri e con diametro del fusto di 3,38 metri. Dal 1906 si svolge a San Leonardo nei primi giorni di giugno la Fiera Regionale del Cavallo, tenuta all'interno del complesso fieristico che durante il resto dell'anno accoglie attività legate all'equitazione. L'abitato si trova in un bosco di lecci e di querce da sughero, con presenza di numerosi alberi secolari uno dei quali in via dell'Agrifoglio.
Fonti Di San Leonardo De Siete Fuentes S.P.A.
6 SP20
San Leonardo de Siete Fuentes o di Siete Fuentes (Santu Nenaldu in sardo) è l'unica frazione di Santu Lussurgiu, che prende nome dell'omonima chiesa e dalle sette fonti qui presenti. Si trova a pochi chilometri dal capoluogo comunale, in direzione nord sulla strada provinciale 20. È situato a 684 m di altitudine sul livello del mare. Nell'abitato risiedono stabilmente solo poche persone, ma si popola maggiormente nel periodo estivo. L'abitato si sviluppò intorno alla chiesa omonima e all'antico ospedale. In quel periodo il territorio apparteneva al giudicato di Torres che fra il 1127 e il 1152 era sotto la guida di Gonario II, un partecipante alla seconda crociata. All'estinzione della dinastia del Regno giudicale di Torres con la morte della Regina Adelasia i suoi territori diventarono parte del Regno giudicale di Arborea e con essi la villa di San Leonardo. Dal XIII secolo appartenne all'Ordine ospitaliero di San Giovanni in Gerusalemme. La fondazione di San Leonardo, risalente al XII secolo, è antecedente a quella di Santu Lussurgiu. Quando intorno alla chiesa del santo di Noblac si stabilì un insediamento stabile, nel sito dove oggi sorge la chiesa di Santa Croce era presente solo un santuario con le reliquie di San Lussorio. Degli atti del Liber Censuum del XIII secolo, attestano l'esistenza di un altro villaggio, Lucentina, che sorgeva a pochi chilometri dal santuario di San Lussorio in direzione dell'attuale Abbasanta nella zona che oggi prende il nome di Lughentinas. Nello stesso periodo intorno al santuario si era formato un primo insediamento stabile. Per motivi attribuibili alle guerre e alle epidemie del 1300 gli insediamenti medievali di San Leonardo e Lucentina persero importanza e abitanti mentre crebbe quello di Santu Lussurgiu. Il primo di spopola mentre del secondo non resta traccia. I primi documenti che riportano lo spopolamento di San Leonardo sono della fine del 1500. Secondo uno studio del 2007[1] il nome attuale della chiesa e quindi della borgata potrebbe essere dovuto a un originario insediamento di monaci dell'ordine cistercense e al loro uso di chiamare i propri insediamenti col nome di Septem-Fontes. Il nome deriverebbe dal significato simbolico assunto dal numero sette in connessione con le sorgenti di acqua. Esempi di questa usanza dell'Ordine si trovano in tutta Europa come l'Abbazia di Sept-Fons in Francia a Dompierre-sur-Besbre. Nella seconda metà del Novecento ha avuto un discreto sviluppo. Era presente un albergo dell'ente ESIT (Ente Sardo Industrie Turistiche), un presidio della Croce Rossa Italiana e una colonia montana gestita dai padri gesuiti. La frazione è nota per le sorgenti siete fuentes (in italiano sette fontane), che alimentano un laghetto e il ruscello di San Leonardo che scorre fino alla piana di Abbasanta. L'azienda "Fonti di San Leonardo de Siete Fuentes" imbottiglia l'acqua[2] di sorgente presso lo stabilimento situato lungo la strada principale del borgo. L'azienda fa parte del gruppo SAM (Sarda Acque Minerali) che imbottiglia anche l'acqua San Giorgio, patrono di Siliqua, in località Zinnigas. Negli ultimi mesi, nonostante il parere sfavorevole di geologi e popolazione lussurgese, la suddetta azienda sta effettuando trivellazioni per lo sfruttamento di nuove falde. Quercia da sughero secolare di oltre 250 anni, alta 15 metri e con diametro del fusto di 3,38 metri. Dal 1906 si svolge a San Leonardo nei primi giorni di giugno la Fiera Regionale del Cavallo, tenuta all'interno del complesso fieristico che durante il resto dell'anno accoglie attività legate all'equitazione. L'abitato si trova in un bosco di lecci e di querce da sughero, con presenza di numerosi alberi secolari uno dei quali in via dell'Agrifoglio.
Tharros è un sito archeologico della provincia di Oristano, situato nel comune di Cabras, in Sardegna. La città si trova nella parte sud della penisola del Sinis, che termina nella sporgenza montuosa di capo San Marco. Il nome del luogo, di origine protosarda, viene collegato alla radice mediterranea *tarr-[2]. La stessa base si ritrova, ad esempio, nei nomi Tarrài (Galtellì) o, fuori dall'isola, Tarracina (Lazio) o Tarraco (Hispania Citerior)[3]. La città fu fondata dai Fenici nell'VIII secolo a.C. vicino ad un preesistente villaggio nuragico dell'età del bronzo[4]. Il villaggio protosardo di Su Muru Mannu, sopra il quale fu creata una costruzione religiosa fenicia, venne abbandonato in maniera pacifica dai suoi abitanti che, stando alle informazioni archeologiche, aiutarono i fenici nella costruzione della nuova città[4]. Successivamente, sotto il governo di Cartagine, la città venne fortificata, ingrandita e conobbe un periodo di ricchezza economica con l'aumento degli scambi commerciali con l'Africa, con la penisola iberica e con Massalia[4]. Tharros in epoca cartaginese fu forse la capitale provinciale. Conquistata da Roma nel 238 a.C., all'indomani della prima guerra punica, pochi decenni dopo (215 a.C.) fu uno dei luoghi di nascita della rivolta anti-romana guidata da Ampsicora. In età imperiale ci fu un forte rinnovamento della città con la costruzione delle terme, dell'acquedotto e la sistemazione della rete stradale con pavimentazione in lastre di basalto[5]. La città ottenne lo status di comunità di cittadini romani[6]. Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, Tharros, governata prima dai Vandali e poi dai Bizantini e tormentata dalle incursioni dei musulmani, entrò progressivamente in una profonda crisi che porto all'abbandono della zona intorno al 1050[5][7]. Prima del suo abbandono Tharros fu anche la capitale del giudicato di Arborea; la regina Nibata o il re (chiamato "Giudice") Orzocco I de Lacon-Zori trasferirono ad Oristano la sede vescovile e l'intera popolazione tarrense. Celebre è il detto (riportato per la prima volta dal Mattei) "e sa cittad'e Tharros, portant sa perda a carros", letteralmente "dalla città di Tharros portano le pietre a carri (in grandi quantità, ndr)", a dimostrazione del fatto che Oristano venne fondata con i resti materiali dell'antica colonia fenicia. L'area è attualmente un museo all'aria aperta e gli scavi vanno avanti portando alla luce maggiori notizie sul passato di questa città. Ciò che è possibile vedere risale soprattutto al periodo della dominazione romana o della prima cristianità. Tra le strutture più interessanti vi sono il tophet, le terme, le fondamenta del tempio e una parte dell'area con case e botteghe artigiane. La maggior parte dei manufatti ritrovati durante gli scavi sono visibili presso: - il Museo archeologico nazionale di Cagliari; - l'Antiquarium arborense a Oristano; - il Museo archeologico comunale Giovanni Marongiu di Cabras; - il British Museum di Londra.
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タッロス考古学地域
SP6
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Tharros è un sito archeologico della provincia di Oristano, situato nel comune di Cabras, in Sardegna. La città si trova nella parte sud della penisola del Sinis, che termina nella sporgenza montuosa di capo San Marco. Il nome del luogo, di origine protosarda, viene collegato alla radice mediterranea *tarr-[2]. La stessa base si ritrova, ad esempio, nei nomi Tarrài (Galtellì) o, fuori dall'isola, Tarracina (Lazio) o Tarraco (Hispania Citerior)[3]. La città fu fondata dai Fenici nell'VIII secolo a.C. vicino ad un preesistente villaggio nuragico dell'età del bronzo[4]. Il villaggio protosardo di Su Muru Mannu, sopra il quale fu creata una costruzione religiosa fenicia, venne abbandonato in maniera pacifica dai suoi abitanti che, stando alle informazioni archeologiche, aiutarono i fenici nella costruzione della nuova città[4]. Successivamente, sotto il governo di Cartagine, la città venne fortificata, ingrandita e conobbe un periodo di ricchezza economica con l'aumento degli scambi commerciali con l'Africa, con la penisola iberica e con Massalia[4]. Tharros in epoca cartaginese fu forse la capitale provinciale. Conquistata da Roma nel 238 a.C., all'indomani della prima guerra punica, pochi decenni dopo (215 a.C.) fu uno dei luoghi di nascita della rivolta anti-romana guidata da Ampsicora. In età imperiale ci fu un forte rinnovamento della città con la costruzione delle terme, dell'acquedotto e la sistemazione della rete stradale con pavimentazione in lastre di basalto[5]. La città ottenne lo status di comunità di cittadini romani[6]. Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, Tharros, governata prima dai Vandali e poi dai Bizantini e tormentata dalle incursioni dei musulmani, entrò progressivamente in una profonda crisi che porto all'abbandono della zona intorno al 1050[5][7]. Prima del suo abbandono Tharros fu anche la capitale del giudicato di Arborea; la regina Nibata o il re (chiamato "Giudice") Orzocco I de Lacon-Zori trasferirono ad Oristano la sede vescovile e l'intera popolazione tarrense. Celebre è il detto (riportato per la prima volta dal Mattei) "e sa cittad'e Tharros, portant sa perda a carros", letteralmente "dalla città di Tharros portano le pietre a carri (in grandi quantità, ndr)", a dimostrazione del fatto che Oristano venne fondata con i resti materiali dell'antica colonia fenicia. L'area è attualmente un museo all'aria aperta e gli scavi vanno avanti portando alla luce maggiori notizie sul passato di questa città. Ciò che è possibile vedere risale soprattutto al periodo della dominazione romana o della prima cristianità. Tra le strutture più interessanti vi sono il tophet, le terme, le fondamenta del tempio e una parte dell'area con case e botteghe artigiane. La maggior parte dei manufatti ritrovati durante gli scavi sono visibili presso: - il Museo archeologico nazionale di Cagliari; - l'Antiquarium arborense a Oristano; - il Museo archeologico comunale Giovanni Marongiu di Cabras; - il British Museum di Londra.
L’ipogeo, localizzato al di sotto della chiesa omonima, è costituito da un complesso di ambienti scavati nella roccia nella parte inferiore e costruiti con filari di laterizi alternati a filari di conci litici nella parte superiore. Alla struttura si accede da una scalinata aperta sul pavimento della chiesa che immette in un corridoio su cui si affacciano due vani rettangolari affrontati coperti a volta (I e V); al termine del corridoio si trova un piccolo ambiente circolare cupolato con pozzo a ghiera quadrata su cui si aprono due vani laterali voltati, con lato di fondo absidato (II e IV), e uno semicircolare coperto a volta (III). L’impianto dell’ipogeo dovrebbe datarsi al IV sec. d.C., epoca alla quale viene attribuita buona parte delle pitture e delle iscrizioni, ma è certo che esso conobbe una frequentazione, anche se interrotta da periodi di abbandono, che giunge ad età moderna. Sulle pareti intonacate dei vani si conservano numerose pitture in nero raffiguranti divinità ed eroi della tradizione classica (tra cui Venere, Marte, Pegaso, Proserpina, Ninfe, Ercole in lotta con il leone nemeo), altre figure (personaggio maschile circondato da leoni, auriga vittorioso), simboli cristiani (pavone, pesce) e numerose imbarcazioni, in un caso un galeone forse seicentesco. Tali raffigurazioni vengono collegate ad un culto salutifero connesso con quello delle acque di cui il sacello certo fu sede; si contano inoltre numerose iscrizioni latine, un alfabeto greco e un’iscrizione araba (secc. XVI-XVII).
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サン・サルヴァトーレ・ディ・シニスのヒポゲオ
Via S'Arruga de Su Devotu
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L’ipogeo, localizzato al di sotto della chiesa omonima, è costituito da un complesso di ambienti scavati nella roccia nella parte inferiore e costruiti con filari di laterizi alternati a filari di conci litici nella parte superiore. Alla struttura si accede da una scalinata aperta sul pavimento della chiesa che immette in un corridoio su cui si affacciano due vani rettangolari affrontati coperti a volta (I e V); al termine del corridoio si trova un piccolo ambiente circolare cupolato con pozzo a ghiera quadrata su cui si aprono due vani laterali voltati, con lato di fondo absidato (II e IV), e uno semicircolare coperto a volta (III). L’impianto dell’ipogeo dovrebbe datarsi al IV sec. d.C., epoca alla quale viene attribuita buona parte delle pitture e delle iscrizioni, ma è certo che esso conobbe una frequentazione, anche se interrotta da periodi di abbandono, che giunge ad età moderna. Sulle pareti intonacate dei vani si conservano numerose pitture in nero raffiguranti divinità ed eroi della tradizione classica (tra cui Venere, Marte, Pegaso, Proserpina, Ninfe, Ercole in lotta con il leone nemeo), altre figure (personaggio maschile circondato da leoni, auriga vittorioso), simboli cristiani (pavone, pesce) e numerose imbarcazioni, in un caso un galeone forse seicentesco. Tali raffigurazioni vengono collegate ad un culto salutifero connesso con quello delle acque di cui il sacello certo fu sede; si contano inoltre numerose iscrizioni latine, un alfabeto greco e un’iscrizione araba (secc. XVI-XVII).
A sud ovest del Parco di Seu si scorge semisommerso il frammento di un relitto, la cui poppa emerge a circa 100 metri dalla riva. La storia di questo relitto ci parla di un rimorchiatore che, mentre solcava il mare del Sinis circa 20 anni fa, in una delle tante cattive giornate di maestrale che solo la costa occidentale della Sardegna conosce, è naufragato nel mare di Seu. Per raggiungere i resti del rimorchiatore ci si tuffa dalla spiaggia prospiciente il relitto e si pinneggia tra i banchi di roccia e la Cystoseira facendo rotta verso la parte visibile che affiora dall’acqua. Nell’osservare il fondo, nuotando in tutta tranquillità, appaiono uno dopo l’altro i pezzi del relitto: prima alcune traverse, poi un frammento più grande con un grosso anello metallico su un lato, mentre più avanti si distingue una parte di quella che doveva essere la chiglia, insieme ad una serie di ordinate; tutti i pezzi del rimorchiatore poggiano ora sulla sabbia, ora sulla roccia. Ancora prima di tuffarsi per la visita al relitto è possibile incontrare alcuni frequentatori del litorale, infatti la parte di rimorchiatore che affiora dall’acqua è abituale posatoio di Marangoni dal ciuffo e Gabbiani reali. Nel nuotare verso la parte di relitto che emerge, da una sporgenza di roccia si può scorgere, sistemato più giù sul fondo, uno dei frammenti dell’imbarcazione affondata, la stessa roccia qualche volta fa da tana ad una giovane Cernia bruna. Ad ogni pinneggiata l’atmosfera del mondo sommerso, fatta di luci ed ombre, si mostra sonnolenta e seducente, e, come in tutte le immersioni attorno ad un relitto, misteriosa! Col procedere della nuotata si incontrano ed oltrepassano dei piani di roccia, lì potrete incontrare dei Tordi neri che, spostandosi più in basso, vi scortano nel punto in cui giace la prua del relitto. Intorno ad essa nuotano Tordi e Castagnole e più avanti, vicino ad una grossa scatola metallica che somiglia ad una cisterna, si muovono come a casa propria le Occhiate e sullo sfondo banchi di Latterini. Quando l’emozione di ricostruire pezzo dopo pezzo il relitto del rimorchiatore sembra concludersi un grosso banco di Salpe confidenti può sfiorare un rottame e aiutarvi a distinguere un pezzo di scafo, un pezzo di coperta e delle strutture a forma di grossi tubi verticali vi possono passare davanti anche dei grandi Saraghi fasciati, che invece arrivano dalla parte bassa dell’ultimo frammento di rimorchiatore, la poppa, adagiata poco oltre: si riconosce distintamente l’elica e la murata di dritta, quest’ultima, spezzata, spunta dall’acqua!
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Torre di Seu
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A sud ovest del Parco di Seu si scorge semisommerso il frammento di un relitto, la cui poppa emerge a circa 100 metri dalla riva. La storia di questo relitto ci parla di un rimorchiatore che, mentre solcava il mare del Sinis circa 20 anni fa, in una delle tante cattive giornate di maestrale che solo la costa occidentale della Sardegna conosce, è naufragato nel mare di Seu. Per raggiungere i resti del rimorchiatore ci si tuffa dalla spiaggia prospiciente il relitto e si pinneggia tra i banchi di roccia e la Cystoseira facendo rotta verso la parte visibile che affiora dall’acqua. Nell’osservare il fondo, nuotando in tutta tranquillità, appaiono uno dopo l’altro i pezzi del relitto: prima alcune traverse, poi un frammento più grande con un grosso anello metallico su un lato, mentre più avanti si distingue una parte di quella che doveva essere la chiglia, insieme ad una serie di ordinate; tutti i pezzi del rimorchiatore poggiano ora sulla sabbia, ora sulla roccia. Ancora prima di tuffarsi per la visita al relitto è possibile incontrare alcuni frequentatori del litorale, infatti la parte di rimorchiatore che affiora dall’acqua è abituale posatoio di Marangoni dal ciuffo e Gabbiani reali. Nel nuotare verso la parte di relitto che emerge, da una sporgenza di roccia si può scorgere, sistemato più giù sul fondo, uno dei frammenti dell’imbarcazione affondata, la stessa roccia qualche volta fa da tana ad una giovane Cernia bruna. Ad ogni pinneggiata l’atmosfera del mondo sommerso, fatta di luci ed ombre, si mostra sonnolenta e seducente, e, come in tutte le immersioni attorno ad un relitto, misteriosa! Col procedere della nuotata si incontrano ed oltrepassano dei piani di roccia, lì potrete incontrare dei Tordi neri che, spostandosi più in basso, vi scortano nel punto in cui giace la prua del relitto. Intorno ad essa nuotano Tordi e Castagnole e più avanti, vicino ad una grossa scatola metallica che somiglia ad una cisterna, si muovono come a casa propria le Occhiate e sullo sfondo banchi di Latterini. Quando l’emozione di ricostruire pezzo dopo pezzo il relitto del rimorchiatore sembra concludersi un grosso banco di Salpe confidenti può sfiorare un rottame e aiutarvi a distinguere un pezzo di scafo, un pezzo di coperta e delle strutture a forma di grossi tubi verticali vi possono passare davanti anche dei grandi Saraghi fasciati, che invece arrivano dalla parte bassa dell’ultimo frammento di rimorchiatore, la poppa, adagiata poco oltre: si riconosce distintamente l’elica e la murata di dritta, quest’ultima, spezzata, spunta dall’acqua!
Piccolissimo paese-museo ‘a cielo aperto’ della Planargia, nella Sardegna centro-occidentale, famoso per arte dell’intreccio, murales e malvasia. Condivide la manifattura di cestini di asfodelo, canna e salice con un altro piccolo borgo, Flussio, al quale è unito senza soluzione di continuità dalla statale 292 che attraversa la Planargia. Tinnura, paesino di appena 250 abitanti, tra i più piccoli dell’Isola, a nove chilometri da Bosa e a 55 dal capoluogo di provincia Oristano, sorge su un altopiano basaltico e si affaccia sulla fertile vallata di Modolo. Allevamento e agricoltura sono le attività dominanti: vi si coltivano uliveti, frutteti e vigneti, da cui provengono vini di ottima qualità, in particolare la malvasia. Il paesino è un museo d’arte moderna ‘a cielo aperto’: nelle suggestive vie e piazzette lastricate, ammirerai monumenti e statue di artisti sardi (tra cui Simplicio Derosas e Pinuccio Sciola) e pittoreschi murales dipinti nelle facciate delle case, raffiguranti momenti di vita rurale e del borgo. Ti resterà impressa anche la varietà di colori dei pavimenti lastricati in trachite rossa, marmo bianco e basalto grigio delle strade, lungo le quali, in primavera, noterai le fibre vegetali esposte al sole per essiccare e poi essere usate nel confezionamento dei cestini. Per far macerare l’asfodelo, sino a poco tempo fa, si usava l’acqua delle fontane del borgo, tra cui Funtana ‘e giosso, della quale apprezzerai ingresso architravato e la cupoletta intonacata. È probabile che il toponimo stesso, di origine preromana, derivi da thinnías, ossia le piante del giunco spinoso dei fiumi vicini. Da visitare anche la seicentesca parrocchiale di Sant’Anna con elegante campanile a bande in mattoni rossi. La patrona è celebrata a fine luglio con riti religiosi e civili. Altra festa sentita è per la beata Vergine del Rimedio, a inizio settembre. Il territorio di Tinnura fu abitato sin da età prenuragica, come dimostrato alcuni menhir. All’età del Bronzo risalgono il nuraghe Tres Bias (o Trobia), struttura complessa posta a controllo dell’area circostante e la vicina tomba di Giganti su Crastu Covocadu, una delle più grandi e importanti dell’Isola, attorno alla quale sono stati trovati anche reperti della seconda metà del II secolo a.C., ossia di età romana. Ad essa fanno riferimento numerose aziende agricole dedite alla coltivazione cerealicola che sopravvissero addirittura fino al Medioevo, quando il villaggio fu sotto dominazione dei giudicati prima di Cagliari, poi d’Arborea, con breve passaggio feudale ai Malaspina.
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Tinnura
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Piccolissimo paese-museo ‘a cielo aperto’ della Planargia, nella Sardegna centro-occidentale, famoso per arte dell’intreccio, murales e malvasia. Condivide la manifattura di cestini di asfodelo, canna e salice con un altro piccolo borgo, Flussio, al quale è unito senza soluzione di continuità dalla statale 292 che attraversa la Planargia. Tinnura, paesino di appena 250 abitanti, tra i più piccoli dell’Isola, a nove chilometri da Bosa e a 55 dal capoluogo di provincia Oristano, sorge su un altopiano basaltico e si affaccia sulla fertile vallata di Modolo. Allevamento e agricoltura sono le attività dominanti: vi si coltivano uliveti, frutteti e vigneti, da cui provengono vini di ottima qualità, in particolare la malvasia. Il paesino è un museo d’arte moderna ‘a cielo aperto’: nelle suggestive vie e piazzette lastricate, ammirerai monumenti e statue di artisti sardi (tra cui Simplicio Derosas e Pinuccio Sciola) e pittoreschi murales dipinti nelle facciate delle case, raffiguranti momenti di vita rurale e del borgo. Ti resterà impressa anche la varietà di colori dei pavimenti lastricati in trachite rossa, marmo bianco e basalto grigio delle strade, lungo le quali, in primavera, noterai le fibre vegetali esposte al sole per essiccare e poi essere usate nel confezionamento dei cestini. Per far macerare l’asfodelo, sino a poco tempo fa, si usava l’acqua delle fontane del borgo, tra cui Funtana ‘e giosso, della quale apprezzerai ingresso architravato e la cupoletta intonacata. È probabile che il toponimo stesso, di origine preromana, derivi da thinnías, ossia le piante del giunco spinoso dei fiumi vicini. Da visitare anche la seicentesca parrocchiale di Sant’Anna con elegante campanile a bande in mattoni rossi. La patrona è celebrata a fine luglio con riti religiosi e civili. Altra festa sentita è per la beata Vergine del Rimedio, a inizio settembre. Il territorio di Tinnura fu abitato sin da età prenuragica, come dimostrato alcuni menhir. All’età del Bronzo risalgono il nuraghe Tres Bias (o Trobia), struttura complessa posta a controllo dell’area circostante e la vicina tomba di Giganti su Crastu Covocadu, una delle più grandi e importanti dell’Isola, attorno alla quale sono stati trovati anche reperti della seconda metà del II secolo a.C., ossia di età romana. Ad essa fanno riferimento numerose aziende agricole dedite alla coltivazione cerealicola che sopravvissero addirittura fino al Medioevo, quando il villaggio fu sotto dominazione dei giudicati prima di Cagliari, poi d’Arborea, con breve passaggio feudale ai Malaspina.
Mogoro è sinonimo d’arte tessile e manufatti in legno, apprezzati nel mondo e che affondano le radici nel passato. A metà XIX secolo dalle sue case risuonava il battere sordo di 600 telai, oggi la tradizione è ancora vivissima: è un centro agropastorale dell’alta Marmilla, popolato da quattromila e 500 abitanti, noto per tappeti, arazzi, abiti tradizionali, coperte da corredo, is fanigas (per coprire le casse nuziali), is cannacas (collari per i buoi), scanni e cassepanche, e per l’ottimo vino della sua cantina sociale. Sulle eccellenze manifatturiere di tutta la Sardegna, dal 1961, ogni anno, in estate, si accendono i riflettori della Fiera dell’artigianato artistico della Sardegna, con visitatori da tutta Europa. Il paese si adagia in un altopiano sulle pendici meridionali del monte Arci, 35 chilometri a sud di Oristano. In un territorio ricco di storia - sede preistorica di lavorazione dell’ossidiana nel Mediterraneo - e fertile, mietitura e macinazione del grano hanno generato usi e sapori espressi da panifici e pastifici (civrasciu, coccoi, malloreddus e fregola) e dai dolci (pan’e saba, pabassini e pardulas). Noterai botteghe artigianali che si alternano a case in basalto, decorate da cornici di calce e portoni di legno. Al centro, la parrocchiale di san Bernardino da Siena, tardo-romanica con inserti barocchi: un’unica navata affrescata con scene della vita del santo. Custodisce la reliquia del miracolo eucaristico del 1604. La chiesa del Carmine, costruita a inizio XIV secolo, con forme romanico-gotiche, appartenne al convento dei carmelitani fino al 1855. In un villaggio medioevale distrutto dai saraceni (XV secolo), sorge la chiesa di santa Maria Carcaxia, risalente forse all’anno mille, più volte ricostruita (l’ultima nel 1921). È edificata con pietra bianca e basalto, circondata da vigneti e oliveti. Con gli stessi materiali fu eretta su una collina l’antica chiesetta di sant’Antioco: vi si accede da una suggestiva scalinata. Potrai fare itinerari culturali-archeologici immerso nel verde. I reperti più antichi del territorio sono riferibili al Paleolitico. Al Neolitico finale risalgono vasi della cultura di Ozieri ritrovati in vari siti. Interessante l’insediamento prenuragico di Puisteris con materiale della cultura di Bonu Ighinu. Si contano 27 nuraghi, 13 monotorre, come su Gunventu, e 14 complessi, tra cui spicca l’area archeologica (visitabile) di Cuccurada, costituita da nuraghe polilobato, imperniato su uno precedente ‘a corridoio’, una muraglia, che risalirebbe all’eneolitico (2400-2100 a.C.), e un’incerta struttura megalitica. La planimetria rende il nuraghe unico. Le quattro torri del bastione sono raccordate da mura che delimitano un cortile pentagonale, dove sono stati individuati resti di capanne. Gli scavi hanno restituito reperti che vanno dal Bronzo recente-finale a inizio età del Ferro, con riuso medievale.
Mogoro
Mogoro è sinonimo d’arte tessile e manufatti in legno, apprezzati nel mondo e che affondano le radici nel passato. A metà XIX secolo dalle sue case risuonava il battere sordo di 600 telai, oggi la tradizione è ancora vivissima: è un centro agropastorale dell’alta Marmilla, popolato da quattromila e 500 abitanti, noto per tappeti, arazzi, abiti tradizionali, coperte da corredo, is fanigas (per coprire le casse nuziali), is cannacas (collari per i buoi), scanni e cassepanche, e per l’ottimo vino della sua cantina sociale. Sulle eccellenze manifatturiere di tutta la Sardegna, dal 1961, ogni anno, in estate, si accendono i riflettori della Fiera dell’artigianato artistico della Sardegna, con visitatori da tutta Europa. Il paese si adagia in un altopiano sulle pendici meridionali del monte Arci, 35 chilometri a sud di Oristano. In un territorio ricco di storia - sede preistorica di lavorazione dell’ossidiana nel Mediterraneo - e fertile, mietitura e macinazione del grano hanno generato usi e sapori espressi da panifici e pastifici (civrasciu, coccoi, malloreddus e fregola) e dai dolci (pan’e saba, pabassini e pardulas). Noterai botteghe artigianali che si alternano a case in basalto, decorate da cornici di calce e portoni di legno. Al centro, la parrocchiale di san Bernardino da Siena, tardo-romanica con inserti barocchi: un’unica navata affrescata con scene della vita del santo. Custodisce la reliquia del miracolo eucaristico del 1604. La chiesa del Carmine, costruita a inizio XIV secolo, con forme romanico-gotiche, appartenne al convento dei carmelitani fino al 1855. In un villaggio medioevale distrutto dai saraceni (XV secolo), sorge la chiesa di santa Maria Carcaxia, risalente forse all’anno mille, più volte ricostruita (l’ultima nel 1921). È edificata con pietra bianca e basalto, circondata da vigneti e oliveti. Con gli stessi materiali fu eretta su una collina l’antica chiesetta di sant’Antioco: vi si accede da una suggestiva scalinata. Potrai fare itinerari culturali-archeologici immerso nel verde. I reperti più antichi del territorio sono riferibili al Paleolitico. Al Neolitico finale risalgono vasi della cultura di Ozieri ritrovati in vari siti. Interessante l’insediamento prenuragico di Puisteris con materiale della cultura di Bonu Ighinu. Si contano 27 nuraghi, 13 monotorre, come su Gunventu, e 14 complessi, tra cui spicca l’area archeologica (visitabile) di Cuccurada, costituita da nuraghe polilobato, imperniato su uno precedente ‘a corridoio’, una muraglia, che risalirebbe all’eneolitico (2400-2100 a.C.), e un’incerta struttura megalitica. La planimetria rende il nuraghe unico. Le quattro torri del bastione sono raccordate da mura che delimitano un cortile pentagonale, dove sono stati individuati resti di capanne. Gli scavi hanno restituito reperti che vanno dal Bronzo recente-finale a inizio età del Ferro, con riuso medievale.
Esplorazioni subacquee (snorkelling), vela, trekking, bird watching (per ammirare i grifoni), gite in battello sul fiume. Intorno a Bosa ci sono oltre 40 km di coste incontaminate, di acque limpide e cristalline che lambiscono insenature e spiagge dove gli appassionati subacquei possono trovare fondali ricchi di coralli e aragoste. Tra le spiagge migliori, quelle di Cumpoltittu (5 km a nord), Porto Alabe (sulla litoranea che si dirige a sud) e Porto Foghe, un’insenatura scavata nella falesia. Da Magomadas a Tresnuraghes la costa è impervia, mossa, con scogli che si alternano a spiaggette, ma molto affascinante. A 5 km. da Bosa lungo la strada per Alghero, si trova il sito archeologico S’Abba Druche, testimonianza di un insediamento abitativo che va dall’epoca nuragica all’età romana imperiale. Nei dintorni anche le Domus de Janas di Coroneddu e la necropoli ipogeica di Chirisconis.
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Bosa
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Esplorazioni subacquee (snorkelling), vela, trekking, bird watching (per ammirare i grifoni), gite in battello sul fiume. Intorno a Bosa ci sono oltre 40 km di coste incontaminate, di acque limpide e cristalline che lambiscono insenature e spiagge dove gli appassionati subacquei possono trovare fondali ricchi di coralli e aragoste. Tra le spiagge migliori, quelle di Cumpoltittu (5 km a nord), Porto Alabe (sulla litoranea che si dirige a sud) e Porto Foghe, un’insenatura scavata nella falesia. Da Magomadas a Tresnuraghes la costa è impervia, mossa, con scogli che si alternano a spiaggette, ma molto affascinante. A 5 km. da Bosa lungo la strada per Alghero, si trova il sito archeologico S’Abba Druche, testimonianza di un insediamento abitativo che va dall’epoca nuragica all’età romana imperiale. Nei dintorni anche le Domus de Janas di Coroneddu e la necropoli ipogeica di Chirisconis.
La torre Argentina è una torre costiera sarda posta sul promontorio omonimo, appartenente amministrativamente al comune di Bosa, da cui dista circa 5 km. La torre d'avvistamento fu costruita per volere dei dominatori spagnoli nella seconda metà del XVI secolo, probabilmente verso il 1578 o il 1587, al fine di contrastare e scoraggiare le invasioni dei saraceni; fu per questo eretta in prossimità della costa e della foce del fiume Temo, su un promontorio che consentisse la visibilità delle non lontane torri di Bosa e di Colombargia. La struttura era in grado di ospitare due fucilieri, un alcalde e un cannone. La torre cilindrica in pietra si erge a 33 m s.l.m. su un promontorio calcareo a picco sul mare.[1] All'interno è presente un unico ambiente coperto da una volta a fungo, accessibile dall'ingresso posto alla quota di 3 m; in sommità la struttura è coronata da una terrazza panoramica
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Turre Argentina
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La torre Argentina è una torre costiera sarda posta sul promontorio omonimo, appartenente amministrativamente al comune di Bosa, da cui dista circa 5 km. La torre d'avvistamento fu costruita per volere dei dominatori spagnoli nella seconda metà del XVI secolo, probabilmente verso il 1578 o il 1587, al fine di contrastare e scoraggiare le invasioni dei saraceni; fu per questo eretta in prossimità della costa e della foce del fiume Temo, su un promontorio che consentisse la visibilità delle non lontane torri di Bosa e di Colombargia. La struttura era in grado di ospitare due fucilieri, un alcalde e un cannone. La torre cilindrica in pietra si erge a 33 m s.l.m. su un promontorio calcareo a picco sul mare.[1] All'interno è presente un unico ambiente coperto da una volta a fungo, accessibile dall'ingresso posto alla quota di 3 m; in sommità la struttura è coronata da una terrazza panoramica
Il fascino delle antiche concerie lungo le rive del Temo La cittadina di Bosa a fine ottocento e per tutta la prima metà del novecento è stata la capitale delle concerie in Sardegna e in Italia. Unico nel suo genere, il Museo delle Conce di Bosa, rappresenta oggi, un luogo di straordinaria importanza per conoscere tutti i segreti della lavorazione delle pelli. Il Museo delle concerie situato in Via Sas Conzas, a ridosso del fiume Temo, è nato con l'intento di far conoscere l'antico e affascinante lavoro del conciatore, molto diffuso a Bosa, che si è protratto per tutto l'Ottocento, fino al 1962, anno in cui chiuse definitivamente l’ultima conceria. Il museo è stato realizzato in una conceria risalente al 1700,abilmente restaurata, nella quale sono state riportate alla luce, nel piano terra, le originali vasche in muratura, con la classica struttura in pendenza,dotate di canali di scolo aperti, per consentire la loro pulizia ed evitare la fermentazione e l’accumulo del fango. Oggi è possibile camminarci sopra grazie alla creazione di un’apposita pavimentazione in vetro. Le vasche all’interno di una conceria sono un elemento importantissimo, in quanto la prima fase della lavorazione delle pelli avveniva proprio all’interno di esse. Al piano superiore è possibile osservare la struttura stessa della concia, con una fedele riproduzione dell'aspetto originario e scoprire tutti gli attrezzi che si utilizzavano per la lavorazione e la rifinitura, con un importante esposizione di antiche fotografie. Condizioni di lavoro difficili in ambienti dannosi e insalubri. Era questa la situazione del lavoratore di una conceria. Grazie alla visita guidata all’interno del museo si potrà tornare indietro nel tempo e rivivere la complicata situazione lavorativa di questi operai. L'attività conciaria a Bosa che risalirebbe addirittura ai tempi dei Romani, ebbe una riscoperta nel 1600, ma raggiunse il suo apice solo nel 1800. L’importanza e la diffusione di quest’attività venne puntualmente riportata da Vittorio Angius nel Dizionario Angius-Casalis. Egli censisce nel 1834, ventotto conce. Col tempo ci sarebbe stata una progressiva riduzione a partire già dal 1860, fino ad arrivare a quindici concerie nel 1887. Negli anni '20, la modernizzazione dei sistemi di produzione e dei macchinari, riesce a far aumentare la produzione diminuendo notevolmente i tempi di lavorazione e consentendo pertanto di esportare in Italia e nei mercati stranieri, (soprattutto in Francia), i prodotti lavorati. Le pelli utilizzate erano principalmente bovine e i prodotti finiti, una volta lavorati, erano di grandissima qualità, tanto da ottenere degli importanti riconoscimenti nazionali, con due aziende bosane che raggiunsero altissimi livelli: la ditta Mocci-Marras che vinse nel 1896 la Medaglia di bronzo all'Esposizione Nazionale di Torino e le imprese delle famiglie Sanna Mocci e Solinas Ledda, che ottennero nel 1924 un importante riconoscimento, conquistando il Gran Premio e la Medaglia d'Oro nella Fiera Internazionale di Roma. Al di là dell’importanza culturale e della tradizione che oggi riveste il museo, è doveroso porre l’accento anche sulla qualità architettonica di queste antiche costruzioni che rappresentano un bellissimo esempio di architettura proto-industriale. Ancora oggi infatti si possono ammirare questi antichi edifici, lontani dal centro abitato, per via dei cattivi odori prodotti dalle pelli durante la lavorazione. Si tratta di una schiera di piccole case, realizzate con pietre locali, fango e calce, intonacate con una mistura di calce e polvere trachitica, affiancate le une alle altre, che richiamano la struttura delle tipiche abitazioni bosane. Frutto di un ottimo lavoro di restauro dell’800, le facciate si presentano con degli ingressi in trachite e grandi finestre indispensabili per consentire l’areazione delle pelli. Il fascino delle concerie addossate sulla sponda sinistra del Temo, con la loro intramontabile attrazione decadente, dal glorioso passato, sono uno degli elementi più belli e spettacolari di Bosa e un decreto del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali del 17 ottobre 1989, le ha dichiarate Monumento Nazionale. Grazie al Museo delle conce, ogni conceria rivive la sua storia; la rinnova, la ritrova e la conserva e richiama ogni anno centinaia di turisti.
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Museo delle Conce
62 Via Delle Conce
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Il fascino delle antiche concerie lungo le rive del Temo La cittadina di Bosa a fine ottocento e per tutta la prima metà del novecento è stata la capitale delle concerie in Sardegna e in Italia. Unico nel suo genere, il Museo delle Conce di Bosa, rappresenta oggi, un luogo di straordinaria importanza per conoscere tutti i segreti della lavorazione delle pelli. Il Museo delle concerie situato in Via Sas Conzas, a ridosso del fiume Temo, è nato con l'intento di far conoscere l'antico e affascinante lavoro del conciatore, molto diffuso a Bosa, che si è protratto per tutto l'Ottocento, fino al 1962, anno in cui chiuse definitivamente l’ultima conceria. Il museo è stato realizzato in una conceria risalente al 1700,abilmente restaurata, nella quale sono state riportate alla luce, nel piano terra, le originali vasche in muratura, con la classica struttura in pendenza,dotate di canali di scolo aperti, per consentire la loro pulizia ed evitare la fermentazione e l’accumulo del fango. Oggi è possibile camminarci sopra grazie alla creazione di un’apposita pavimentazione in vetro. Le vasche all’interno di una conceria sono un elemento importantissimo, in quanto la prima fase della lavorazione delle pelli avveniva proprio all’interno di esse. Al piano superiore è possibile osservare la struttura stessa della concia, con una fedele riproduzione dell'aspetto originario e scoprire tutti gli attrezzi che si utilizzavano per la lavorazione e la rifinitura, con un importante esposizione di antiche fotografie. Condizioni di lavoro difficili in ambienti dannosi e insalubri. Era questa la situazione del lavoratore di una conceria. Grazie alla visita guidata all’interno del museo si potrà tornare indietro nel tempo e rivivere la complicata situazione lavorativa di questi operai. L'attività conciaria a Bosa che risalirebbe addirittura ai tempi dei Romani, ebbe una riscoperta nel 1600, ma raggiunse il suo apice solo nel 1800. L’importanza e la diffusione di quest’attività venne puntualmente riportata da Vittorio Angius nel Dizionario Angius-Casalis. Egli censisce nel 1834, ventotto conce. Col tempo ci sarebbe stata una progressiva riduzione a partire già dal 1860, fino ad arrivare a quindici concerie nel 1887. Negli anni '20, la modernizzazione dei sistemi di produzione e dei macchinari, riesce a far aumentare la produzione diminuendo notevolmente i tempi di lavorazione e consentendo pertanto di esportare in Italia e nei mercati stranieri, (soprattutto in Francia), i prodotti lavorati. Le pelli utilizzate erano principalmente bovine e i prodotti finiti, una volta lavorati, erano di grandissima qualità, tanto da ottenere degli importanti riconoscimenti nazionali, con due aziende bosane che raggiunsero altissimi livelli: la ditta Mocci-Marras che vinse nel 1896 la Medaglia di bronzo all'Esposizione Nazionale di Torino e le imprese delle famiglie Sanna Mocci e Solinas Ledda, che ottennero nel 1924 un importante riconoscimento, conquistando il Gran Premio e la Medaglia d'Oro nella Fiera Internazionale di Roma. Al di là dell’importanza culturale e della tradizione che oggi riveste il museo, è doveroso porre l’accento anche sulla qualità architettonica di queste antiche costruzioni che rappresentano un bellissimo esempio di architettura proto-industriale. Ancora oggi infatti si possono ammirare questi antichi edifici, lontani dal centro abitato, per via dei cattivi odori prodotti dalle pelli durante la lavorazione. Si tratta di una schiera di piccole case, realizzate con pietre locali, fango e calce, intonacate con una mistura di calce e polvere trachitica, affiancate le une alle altre, che richiamano la struttura delle tipiche abitazioni bosane. Frutto di un ottimo lavoro di restauro dell’800, le facciate si presentano con degli ingressi in trachite e grandi finestre indispensabili per consentire l’areazione delle pelli. Il fascino delle concerie addossate sulla sponda sinistra del Temo, con la loro intramontabile attrazione decadente, dal glorioso passato, sono uno degli elementi più belli e spettacolari di Bosa e un decreto del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali del 17 ottobre 1989, le ha dichiarate Monumento Nazionale. Grazie al Museo delle conce, ogni conceria rivive la sua storia; la rinnova, la ritrova e la conserva e richiama ogni anno centinaia di turisti.
In uno dei borghi più famosi della Sardegna, nella costa nord-occidentale dell’Isola, ci sono edifici, monumento nazionale nel 1989, testimoni ormai silenziosi di un grande passato imprenditoriale, simbolo dei commercianti borghesi di età sabauda. Un simbolo di archeologia proto-industriale della Sardegna. La tradizione conciaria di Bosa risale all’antica Roma (o forse prima). Riscoperta nel Seicento, crebbe sino a diventare attività floridissima dal secondo Ottocento a tutta la prima metà del Novecento. Furono attive una trentina di aziende, di cui oggi rimane memoria in sas Conzas, che sorgono a schiera lungo la sponda sinistra del Temo, vicine al Ponte Vecchio. Per quasi un secolo il centro della Planargia è stata la capitale delle concerie in Italia, le cui produzioni di altissima qualità erano apprezzate e vendute nella Penisola e all’estero. Col tempo, lentamente, l’attività si ridusse e poi cessò nella seconda parte del XX secolo. Le conce sorsero a ridosso del fiume per facilitare l’approvvigionamento idrico e in prossimità della città per essere facilmente raggiungibili dagli operai, ma sufficientemente lontane per evitare gli odori derivanti dalla lavorazione. I fabbricati furono costruiti con pietre, fango e calce e intonacati con trachite rossa, affiancati gli uni agli altri, come le tipiche abitazioni variopinte del quartiere di sa Costa. Sono di due piani con soffitto in legno: al piano terra c’erano pozzo,​ pressa​ e vasconi, dove le pelli venivano immerse per conciatura, colorazione​ e lavaggio.​ Quello superiore era destinato alla finitura, specie di ‘suola’ e ‘vacchetta’, richiesti dai legatori di libri cagliaritani. Farai un viaggio a ritroso nell’attività storica di Bosa grazie al museo delle Conce, allestito in una conceria del 1700. Un percorso ti illustrerà le tecniche di lavorazione. Al primo piano troverai laboratori e attrezzi per la finitura, al piano terra, restaurate, le originali vasche in muratura. Ci camminerai ‘sopra’ grazie a una pavimentazione in vetro. Bosa è tutta una strabiliante scoperta: ammirerai un borgo medievale unico in Sardegna, sormontato dell’imponente castello dei Malaspina, sul colle di Serravalle (risalente a inizio XII secolo) e affacciato su uno splendido litorale, che alterne calette sabbiose a falesie a picco sul mare. Dentro le mura del castello c’è la chiesa di Nostra Signora de Sos Regnos Altos (XIV-XV secolo). Il centro cittadino oggi è Bosa nova, rifondata vicino al porto fluviale. Bosa vetus era fuori dalle mura, più all’interno, vicino alla chiesa romanica di san Pietro extra muros.
Concerie
17A Via Delle Conce
In uno dei borghi più famosi della Sardegna, nella costa nord-occidentale dell’Isola, ci sono edifici, monumento nazionale nel 1989, testimoni ormai silenziosi di un grande passato imprenditoriale, simbolo dei commercianti borghesi di età sabauda. Un simbolo di archeologia proto-industriale della Sardegna. La tradizione conciaria di Bosa risale all’antica Roma (o forse prima). Riscoperta nel Seicento, crebbe sino a diventare attività floridissima dal secondo Ottocento a tutta la prima metà del Novecento. Furono attive una trentina di aziende, di cui oggi rimane memoria in sas Conzas, che sorgono a schiera lungo la sponda sinistra del Temo, vicine al Ponte Vecchio. Per quasi un secolo il centro della Planargia è stata la capitale delle concerie in Italia, le cui produzioni di altissima qualità erano apprezzate e vendute nella Penisola e all’estero. Col tempo, lentamente, l’attività si ridusse e poi cessò nella seconda parte del XX secolo. Le conce sorsero a ridosso del fiume per facilitare l’approvvigionamento idrico e in prossimità della città per essere facilmente raggiungibili dagli operai, ma sufficientemente lontane per evitare gli odori derivanti dalla lavorazione. I fabbricati furono costruiti con pietre, fango e calce e intonacati con trachite rossa, affiancati gli uni agli altri, come le tipiche abitazioni variopinte del quartiere di sa Costa. Sono di due piani con soffitto in legno: al piano terra c’erano pozzo,​ pressa​ e vasconi, dove le pelli venivano immerse per conciatura, colorazione​ e lavaggio.​ Quello superiore era destinato alla finitura, specie di ‘suola’ e ‘vacchetta’, richiesti dai legatori di libri cagliaritani. Farai un viaggio a ritroso nell’attività storica di Bosa grazie al museo delle Conce, allestito in una conceria del 1700. Un percorso ti illustrerà le tecniche di lavorazione. Al primo piano troverai laboratori e attrezzi per la finitura, al piano terra, restaurate, le originali vasche in muratura. Ci camminerai ‘sopra’ grazie a una pavimentazione in vetro. Bosa è tutta una strabiliante scoperta: ammirerai un borgo medievale unico in Sardegna, sormontato dell’imponente castello dei Malaspina, sul colle di Serravalle (risalente a inizio XII secolo) e affacciato su uno splendido litorale, che alterne calette sabbiose a falesie a picco sul mare. Dentro le mura del castello c’è la chiesa di Nostra Signora de Sos Regnos Altos (XIV-XV secolo). Il centro cittadino oggi è Bosa nova, rifondata vicino al porto fluviale. Bosa vetus era fuori dalle mura, più all’interno, vicino alla chiesa romanica di san Pietro extra muros.